Questa è la storia di idee che si sgretolano, di preconcetti sbloccati, di un workshop per bambini prevedibile che diventa esperienza imprevedibile e di gratitudine, tanta.
Quest’ estate, questa lunghissima, infinita estate in cui ho incontrato mille persone, dormito poco, pensato tanto e visto il mare neanche 8 volte è successo che un viaggio di lavoro mi ha portato a fermarmi ed ascoltare quando pensavo di dover solo parlare, ad ossevare quando il mio ruolo era quello di essere guardata, ad assistere quando dovevo solo intrattenere.
Sono partita per una collaborazione nata all’ultimo minuto: un brand importante, un’agenzia di comunicazione con bellissimi lavori in portfolio, un tour di 3 tappe nelle piazze di alcune popolari città di mare italiane, il compito di intrattenere, coinvolgere e divertire i bambini e le loro famiglie.
Giardinaggio, cucina, creatività manuale: tre attività semplici e divertenti, tre città piene di sole, tre insegnanti (oltre me, Emanuela Tabasso vincitrice di Junior MasterChef e Nicola Caffi Avogadri conduttore de I Sempreverdi su Sky), decine di bambini diversissimi tra loro.
E qui il primo preconcetto che ho dovuto sfatare: come,i bambini?
Io sono cresciuta negli anni del Motor Show di Bologna: partivano branchi di ragazzotti da tutta italia per andarci, i miei compagni di scuola maschi erano tutti lì ogni anno con le lingue a penzoloni: per le automobili in mostra certo, ma sopratutto per le bellissime ragazze che ogni edizione lavoravano come hostess, spesso seminude, alla fiera. Tornavano con lo sguardo da uomo vissuto dei marinai che avevano doppiato Capo Horn: ho visto cose che voi umani…in confronto la bellissima del Liceo era una poveretta con mèches e cerchietto (era la metà degli anni ’80) e ogni post Motor Show erano decine i “fidanzamenti” che non reggevano all’impatto di lycra e Wonderbra. Un classico della comunicazione durato per anni quello del “Donne & Motori”, panterona sdraiata sul cofano e allusioni esplicite: se comprerai lei (la macchina) avrai anche me (la panterona).
La mia prima idea preconcetta a cadere è stata proprio questa: per far conoscere le possibilità di una macchina, uno speciale modello pensato per le famiglie numerose, non si è mirato a far girare la testa al capofamiglia con ammiccanti hostess seminude, ma a far divertire i bambini, e non come spettatori passivi di clown e maghi con palloncini annodati, ma chiamati in prima persona a creare, a sporcarsi, a realizzare qualcosa di proprio. Forse voi non vi rendete conto del cambiamento di comunicazione epocale, ma provate ad affiancare nella vostra mente l’hostess del Motor Show con il body sgambato e un bambino con le mani sporche di terra, farina e pennarello. Risultato: mamme che misurano sedili e che chiedono quanti seggiolini ci stanno, bambini che entrano nelle macchine Test con scatole di orecchiette appena fatte, papà che fanno il conto mentale dell’ingombro di cane e valigie delle vacanze, risate e totale accorciamento delle distanze tra un marchio che nell’immaginario collettivo è associato spesso a Jacuzzi e Yacht Club. Bellissimo (ed efficace).
Durante questa esperienza ho conosciuto almeno 150 bambini e sono state ancora tante le idee preconcette che abbiamo sgretolato.
Inanzitutto quella della provenienza: tante Sara, Giulia e Alessio ma anche Ikram, Chloe, Rania, Ruslan. Bambine marocchine con occhi da cerbiatte e trecce meravigliose grosse quanto un mio braccio. Bambini dell’est scuri come siciliani e modi da imprenditore fascinoso. Bimbe francesi con occhiali e tutù, ragazzine tedesche che disegnavano col righello, famiglie miste che parlavano ai figli in inglese e pugliese insieme.
Nel mio workshop dovevano creare una maglietta personalizzata creando degli stencil adesivi dai loro disegni che quindi dovevano avere sagome semplici da ritagliare: sono andati forte nomi e lettere, cuori e stelle per le bambine e navi, macchine e scudetti di calcio per i bambini.
Ma ho visto bambine disegnare teschi fluo (Rita: capelli rossi e occhiali da nerd, tutta soddisfatta dopo aver passato mezz’ora a decidersi e io sciocca umana a suggerirle sirene e nuvolette), maschi con magliette a cuori giganti bicolori che manco Mirò e nonne terrorizzate che cercavano dissuaderli perchè “da femmina”. Bambini che non vedevano l’ora di farsi mettere sul petto l’adesivo col nome ma anche uno, fantastico, che non voleva “essere chiamato da nessuno” e che quando gli ho spiegato che il nome serviva per me, che mi scordo tutto e che senza l’avrei chiamato “Hey tu, coso”, abbiamo deciso che avremmo scritto proprio “COSO” sull’adesivo. Più tardi si è staccato anche quello, si è rifiutato di fare il disegno, come tutti, con le sagome adesive (fra l’imbarazzo dei genitori) e ha realizzato, a mano, uno dei disegni più belli ed articolati di tutte le tre tappe (Io l’ho guardato e ho pensato: ” Vai Coso, continua ad opporti a tutte le regole perchè se fai come vuoi tu, vinci”).
Bambini timidi che arrivavano nascosti dalle gambe della mamma che ho conquistato un po’ alla volta con occhiate , sorrisi e solletico e poi non volevano andarsene più. Bambini con già la faccia da aperitivo a Milano Marittima che hanno disegnato il logo del brand BMW. Bambine che non finivano più di aggiungere puntini luminosi, smerli su collo e maniche, firme finali con svolazzi.Bambini piccoli come portachiavi che hanno disegnato ovunque tranne che sulla maglietta. Una bambina magrissima e tutta occhiali che, senza sagome e a 8 anni ha disegnato un perfetto personaggio manga in un secondo e parlava del suo futuro professionale con la consapevolezza di una quarantenne: credetemi, ne sentiremo parlare. Un bimbo alto e grosso con apparecchio e sguardo gentile che a 10 disegnava come un graphic designer, con studio di font e campiture perfette. Un altro che ha riempito la maglia di note, puntini, lettere ed oggetti volanti e il papà adorante ha detto che INFATTI da grande voleva fare l’ingegnere. Un altro con la nonna che sapeva poco l’italiano e che si lamentava di non riuscire ad aiutarlo con i compiti perchè troppo difficili per lei, ha sorriso ininterrottamente riempendo la maglietta di zombie e spade laser. Una bimba che non parlava quasi del tutto, aveva 11 anni, ne dimostrava 7 e aveva una cicatrice sul collo che diceva tutto con una mamma bravissima e magica che la trattava con pazienza e senza condiscendenza.
Ma è stato proprio durante l’ultima sessione dell’ultimo giorno che fra tanti visi e ricordi che mi ero già portata a casa che ho avuto l’esperienza che più mi ricorderò di quest’estate: il mio incontro con Rosa.
Rosa è una zingarella, ha 10 anni ed è bellissima. Di quelle bellezze talmente fuori dalla media ed adulte da far male, che stonano sul corpo ancora da bambina e che quasi ti fanno preoccupare.
Rosa vende rose per strada, da sola. Vende quelle rose asfittiche e clonate avvolte strette come mummie nel cellophane. Quelle che non profumano, insomma.
Rosa con le sue rose rigide come spade in mano guardava a distanza le bambine che stavano disegnando la loro maglietta, i pennarelli sparsi, i nonni e le mamme accanto. Non osava avvicinarsi ma neanche andava via, rimaneva lì, nel sole, immobile, a guardare.
Io mi sono accucciata vicino a lei e le ho chiesto se aveva la mamma o un parente che potesse iscriverla (per legge dovevamo far firmare una liberatoria ad un parente maggiorenne per ogni bambino). No, mia mamma è a casa. Le ho detto che purtroppo allora non poteva fare il workshop ma se aspettava 10 minuti le avrei regalato la maglietta piena di stelline che avevo fatto io come campione dimostrativo. Lei ha sorriso ma poi mi ha chiesto se poteva avere un foglio per disegnare, si sarebbe messa più in là, sul marciapiede, a disegnare.
Io mi sono sentita morire e ho pensato che era l’ultimo giorno e che uno strappo alla regola forse si poteva fare: la bimba non voleva una maglietta pronta, voleva proprio passare del tempo a disegnare.
L’ho presa per mano e fatta sedere con le altre bambine, guardando il capo dell’agenzia con occhi che dicevano “mi prendo io la responsabilità” (e lui ha risposto con un cenno di capo che voleva dire che capiva ed era d’accordo). La bimba ha cominciato a disegnare. Disegnava, bene, ma come una bimba di 6. Non sapeva ritagliare. Aveva una maglietta piena di macchie, le unghie nere sotto lo smalto fucsia sbeccato , le sue rose e una manciata di spiccioli che non ha mai perso di vista.
Ha disegnato una cosa che una ragazzina di 10 anni, ad Agosto per giunta, non farebbe mai: Babbo Natale. L’albero, la slitta, le renne, la sua casetta.
Io le ho detto che anche io impazzisco per il Natale, lei ha sorriso sempre, abbiamo fatto una foto assieme ma lei ci teneva a farne una anche con alle altre bambine.
E’ andata via con la sua scatolina con la maglietta dentro come se avesse avuto una Kelly di Hermès. Nell’altra mano le sue rose rimaste, che quasi tutte poi le abbiamo comprato. Quando la penso, ogni giorno da quando l’ho incontrata, per rincuorarmi mi dico che aveva lo sguardo pulito e abita in uno dei paesi più belli d’Italia. Prima di lasciarla le ho dato un bacione e raccomandato di non fare mai niente che non voglia davvero.
Cos’altro potevo dirle?
Il giorno dopo, guardando le foto che avevo fatto i giorni precedenti nel mio cellulare ho scoperto che esattamente una settimana prima Rosa l’avevo già inconsapevolmente incontrata e fotografata, era assieme ad un altro bambino col rosario al collo, al porto della città. Sorrideva anche allora.
Ho pensato ad un disegno del destino e che le esperienze più belle arrivano quando meno te l’aspetti ma quando più ne hai bisogno.