Come molti di voi già sapranno, il capo che tutti indossiamo e di cui abbiamo più di un paio nell’armadio, il jeans, è il capo potenzialmente più inquinante da realizzare. Ho lavorato circa 18 anni nel campo della moda e mi ricordo di quando entravo in una delle importanti lavanderie italiane specializzate nei trattamenti dei jeans: pietre (piccole, medie, grandi), candeggina, spray, serigrafia, sabbiatura, carta vetrata, lavaggi con the, dettagli ruggine, effetti 3D per simulare l’usura a “portafoglio” nella tasca posteriore dei jeans. Scuciture, rammendi, toppe, buchi, tagli con taglierino e forbici fatti a mano o meccanicamente. Un lavoro ed opzioni infinite, una manodopera artigiana e specializzata fra le migliori al mondo che ha fatto la storia del denim. Poi tutto è finito quando, dopo un periodo di estremizzazione, il “lavaggio” è passato un po’ di moda e si è avuta nostalgia di un prodotto più pulito e basico, magari con un fit diverso. Il periodo Acne e Cheap Monday, per intenderci.
Pantaloni minimali, pantaloni appunto e non jeans vissuti come li conoscevamo. Il ritorno al semplice nel gusto, assieme allo spostamento delle produzioni all’estero fecero si che la mancanza di trattamenti diventasse da trend a necessità: l’unico fattore era diventato quello del costo. Dall’altra parte del mondo sono arrivati jeans a prezzo bassissimo, inizialmente senza trattamenti è più tardi con effetti di lavaggio finti, brutte copie di un originale che nessuno si ricordava neanche più.
Cotone OGM fatto crescere a pesticidi portando all’indebitamento gli agricoltori, lavaggi e tinture che, in funzione di un costo bassissimo da raggiungere, vengono effettuati senza nessun tipo di controllo, con sostanze chimiche velenose che, dopo esser state buttate nel mare dalle aziende (che quasi sempre sono baracche fatiscenti in mezzo al nulla), scaricano ad ogni lavaggio della nostra lavatrice nei nostri fiumi e sulla nostra pelle. Ogni giorno.
L’apice si è avuto quando alcuni mesi fa la catena di supermercati Lidl ha messo in vendita un jeans a 5.99 sterline. Se voi avete mai cucito anche solo un orlo, intuite che con circa 7,5 euro si può pagare (forse) solo il tessuto. E le mille cuciture che ha un jeans? E gli accessori (rivetti, bottoni, zip…) e la tintura? E il lavaggio? E la stiratura, la spedizione e l’imballo? Ed infine, il guadagno di Lidl?
Uno schiaffo in piena faccia, un pantalone con scritto SCHIAVISMO a lettere cubitali sopra, che ha immediatamente ottenuto la replica indignata sul sito di Fashion Revolution.
I jeans, basta guardare quelli che avete addosso ora, sono lunghissimi da fare (ne aveva parlato anche Justine su LeFunkymamas). Ma nascono per essere un basico dell’armadio, da far durare molte stagioni se non addirittura una vita. Non ci meritiamo quindi qualcosa di migliore?
Proprio da quell’Italia che in passato ha detto la sua nel mondo in campo denim e di trattamenti artigianali anni fa è nato un progetto finalmente diverso, affidabile, curato in tutte le fasi della catena di produzione: i jeans etici Par.Co.
Mi risponde Diego Parimbelli, owner e founder di Par.Co., che galantemente ci tiene a precisare che l’azienda è in mano però a due fantastiche amministratrici: Laura Robotti e Giada Maffeis (brave!).
-Da quanto tempo esistete come azienda e di dove siete?
L’idea è nata nel 2010, cio sono voluti due anni per sviluppare il progetto e per trovare fornitori che condividessero con noi valori fondamentali come il rispetto per le persone che lavorano. Nel 2012 nasce la società Par.co Fashion Srl e dopo un annetto di lavoro sul design, per i campioni e sdifettamenti, parte la prima produzione di jeans, inizialmente con un modello uomo e uno da donna come prodotti “no logo” di denim di cotone biologico e con lavaggi senza sostanze chimiche pericolose.
-Com’è nata l’idea di realizzare un paio di jeans etici e Made in Italy?
Riscuotendo un discreto successo anche online con clienti nord-europei e facendo tesoro dei molti feedbacks ricevuti, nel 2014 decidiamo di registrare in Italia e in Europa il nostro marchio e progetto, Par.co Denim; parallelamente apriamo il nostro green concept-store, uno spazio di oltre 100 mq in uno dei borghi storici della nostra città, allestito in modo sostenibile con legno fsc, arredamento proveniente da recupero. Il negozio è stato anche disegnato da noi e realizzato da una brillante cooperativa sociale specializzata nella riutilizzo di pallets. Uno spazio dove poter provare e acquistare i nostri prodotti ecosostenibili e altro abbigliamento fatto in Italia da artigiani, piccole sartorie creative e alcuni dei brand emergenti nel panorama della moda etica e sostenibile italiana. Nel 2015, abbiamo partecipato su invito ad alcune delle più importanti della moda etica e sostenibile in Europa, ad Amsterdam, Berlino e Milano per presentare i nostri prodotti uomo e donna in collezione che nel frattempo è cresciuta, offrendo circa 30 prodotti uomo in 5 fit, con diversi lavaggi e con diversi tessuti e circa una 15ina per donna sempre con diversi fit, tessuti e lavaggi.
-Avete lavorato sempre per il vostro marchio o anche come fasonisti?
L’ azienda è nata proprio con l’obiettivo di offire dei prodotti propri etici ed ecosostenibili, vendere prodotti disegnati e svillupati da noi. La sede della società è a Bergamo, cosi come il nostro punto vendita, mentre la produzione è a filiera corta a sud della provincia di Bergamo nello storico distretto tessile bergamasco.
-Quali sono i trattamenti “a rischio” dei comuni 5 taschi provenienti dalle catene Fast Fashion? Come fa un pantalone a costare così poco in certi negozi?
I pantaloni della fast fashion costano cosi poco perchè uitilizzano tessuti denim proveniente da paesi dove sono pochi i controlli ambientali oltre ad avere la produzione in paesi com Bangladesh, India Pakistan e China dove non vengono garantiti i mini standard dei lavoratori oltre ad avere costi del personale estremamente ridotti. Tanto per inderderci: nel fast fashion hai un prodotto finito con un prezzo finale che non raggiunge nemmeno il puro costo del nostro tessuto italiano.
-Come vendete/distribuite i vostri jeans?
Vendiamo i nostri prodotti in alcuni negozi selezionati in Italia, e nelle maggiori capitali del Nord-Europa, ad alcuni GAS ( Gruppi di Acquisto Solidale) in Italia, in alcuni negozi online in Italia, Germania, Danimarca e Olanda e da poco anche attraverso la distribuzione del più grande operatore di Fairtrade in Italia, Altromercato.
-Quest’anno avete partecipate al Fashion Revolution. Che rapporto avete con il mondo Fair Trade?
Il nostro messaggio per la Fashion Revolution è stato quello di differenziare il nostro prodotto avendo una produzione a filiera corta in Italia fatta da artigiani con 50 ani di esperienza nella conferizione dei capi. E per uscire dalla logica dell’acquisto di un capo per poi cambiarlo la stagione successiva. I nostri Jeans e i nostri denim sono fatti per essere vissuti, per creare un feeling e lasciar che il capo e l’indaco scolori e si modelli sul corpo delle persone che lo indossano.
Meglio acquistare un denim e tenerlo per sempre piuttosto che comprarne e lasciarlo appeso nell’armadio, giusto?
-Quali sono i modelli in vendita? Ne avete in programma di nuovi?
Per uomo abbiamo: Chino, 5 tasche slim, skinny, slim narrow, loose, regular e shorts mentre per donna abbiamo un skinny push up vita bassa (uno dei prodotti di maggior successo), uno sigaretta vita medio/alta (quello che io indosso nelle foto ndr), uno boot-cut e due shorts. Stiamo ulteriormente sviluppando per la prossima stagione, che verrà presentata durante Innatex a Francoforte a fine luglio, nuovi modelli donna: un chino, un boy-fit, uno skinny/slim a vita medio/alta mentre per uomo anche il modello bootcut, che spesso ci viene richiesto. Stiamo studiando dei prodotti particolari su nuovi tessuti pronto per tinta, ma per ora non posso dire di più!
Per approfondire, trovate la scheda di Par.Co come produttore etico certificato, nel sito di Altromercato.
PS Se volete parlare di Par.Co sui vostri canali e blog, non esiste gelosia dei contenuti qui, solo il far circolare più possibile le buone notizie: ve ne sarei grata, anzi.
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