Innzitutto: cosa sono i Big Data? Sono le tracce digitali che lasciamo dietro di noi. Ogni volta che prenotiamo un albergo o un volo online, compriamo un oggetto, utilizziamo i social network, scegliamo come pagare qualcosa, utilizziamo un software, scarichiamo un libro o un film e da che sito, ma anche le immagini riprese delle telecamere dentro un supermarket o davanti una banca o i dati raccolti dal sensore del cancello d’ingresso dell’ufficio, ad esempio. Come ci comportiamo, cosa scegliamo ogni giorno: una quantità di dati abnorme, “Big” appunto.
Ma il motivo per cui se ne parla così tanto è per il loro utilizzo, cosa resa possibile e velocissima solo ultimamente tramite algoritmi capaci di trattare così tante variabili in poco tempo, permettendo di collegare fra loro informazioni e rendendo comportamenti, modelli e pattern immediatamente visualizzabili e comprensibili, facilitando quindi conseguenti interpretazioni , cosa fin’ora impossibile per la mole di tempo che sarebbe stata necessaria a decifrare ed incanalare certi dati.
Un “data visualization” efficace e chiaro, fruibile non solo dagli addetti ai lavori, che permette di trarre conclusioni e previsioni.
Un esempio? Quando Amazon ti suggerisce un acquisto basandosi sulle tue preferenze passate, o Instagram ti mette in home foto di argomenti che sembri gradire. Ma i Big Data sono necessari anche per temi come i collegamenti fra malattia ed ambiente ad esempio o, come in questo caso, capire immediatamente cosa sta succedendo nel campo dell’utilizzo delle tecnologie digitali in campo manifatturiero e, quello che è più interessante, cosa comporta in fatto di vendite e sviluppo collegati.
Recentemente sono stati presentati alla Maker Faire Rome i risultati davvero interessanti della ricerca, nata dall’osservazione dei Big Data, dal nome “Il Made in Italy incontra il digitale” (nata da Fondazione NordEst e Banca IFIS Impresa). Analizzato, un campione di 780 piccole e medie imprese italiane appartenenti a tre settori, moda (abbigliamento, calzature, filati e tessuti), casa (mobili) e oreficeria: un raggruppamento di tre aree che rappresenta da solo il 21,6% del settore manifatturiero italiano.
L’obiettivo è stato quello di capire in che misura il digitale, sia sotto forma di nuove tecnologie di produzione, ma anche come strumento per la comunicazione, caratterizza e sviluppa oggi il Made in Italy: i risultati emersi sono confortanti e parlano di un mondo che sta approcciando la digitalizzazione, in particolare nel processo produttivo.
I risultati confermano sensazioni ed esperienze che qualcuno di noi, anche nell’autoproduzione o piccola impresa può aver già osservato: le tecnologie che vengono maggiormente usate nel settore dell’arredamento sono il taglio laser e macchine a controllo numerico (CNC) come la fresa; nel settore orafo e della bigiotteria invece vengono usate la stampante 3D (per prototipazione rapida e riduzione di costi degli stampi) ed il taglio laser. Nel campo dell’abbigliamento invece è utilizzato per lo più il laser. Queste tecnologie riguardano rispettivamente il 22%, 32% e 15% dei settori presi in esame, quindi un risultato moderatamente buono.
Nel campo della tecnologia invece utilizzata come vendita, comunicazione e servizi i risultati sono meno rilevanti.
Molte aziende hanno un sito web (63%) ma è poco utilizzato o semi abbandonato. L’uso dei social media si ferma al 32% e soltanto poco più dell’8% utilizza formule di e-commerce.
Lo testimonia il fatturato italiano in campo vendita online: solo il 2% rispetto ad esempio al 6% della Germania. Un’occasione ancora poco sfruttata, dove però il
settore abbigliamento è quello che più sfrutta questa risorsa.
Ma quella seppur esigua percentuale di aziende che ha investito in tecnologia, aumenta i profitti: i numeri parlano chiaro.
Sia nel settore casa che nell’oreficeria e nella moda, queste aziende sono cresciute decisamente più della media del loro settore di appartenenza, con un reddito decisamente più alto.
La crescita è ancora maggiore quando alla digitalizzazione si affianca la vendita all’estero: dati concreti e confortanti, che fanno prendere coraggio negli investimenti e che fanno guardare a certe realtà con meno insicurezza.
A conclusione di questa ricerca, mi sento di aggiungere che quando si parla di digitalizzazione, sia tecnologica che comunicativa, si prendono in esame grandi aziende o PMI (acronimo per Piccole e Medie Imprese), che abbiamo visto in questo studio attive riguardo la digitalizzazione dei processi produttivi ma ancora carenti su quella legata a comunicazione e vendita online.
Le produzioni dei nuovi makers/crafters o micro imprese, che costituiscono le nuove leve artigiane, hanno al contrario una forte digitalizzazione nel
rapporto con l’online, come comunicazione e vendita, ma spesso poca disinvoltura e approccio trasversale con la tecnologia digitale in quanto produzione.
Ad esempio chi fa abbigliamento si limita a cucire senza pensare di potersi servire del taglio laser o della stampa 3D come personalizzazione o fase di produzione. Così come chi sta in un Fab Lab e ha disinvoltura con la stampa 3D, si limita spesso ad una prototipia statica che non si mescola ad altre tecniche artigianali o materiali che non siano polimeri.
La digitalizzazione dei processi produttivi può e deve penetrare anche in ambiti così piccoli? I risultati di questa ricerca possono riguardarli?
Ecco cosa ne pensa Stefano Micelli, autore di “Futuro Artigiano” e “Fare è Innovare”, (che vi consiglio di leggere):
“Mi pare che il nodo essenziale a cui tutti dobbiamo rispondere sia il giusto mix fra digitale e tradizione. Tutte le attività del crafter devono sapersi confrontare con una narrazione digitale, con le sfide delle nuove tecnologie e allo stesso tempo è fondamentale che rimanga un elemento di originalità manuale, artigianale legato alla tradizione che renda questi oggetti unici, credo che sia questa la sfida a cui tutti debbano rispondere”
Se volete approfondire (o divulgare) i risultati di questa interessante ricerca, tutti i dati si trovano sul sito NewCraftClub .