Gli ultimi anni di monopolio delle catene di fast shopping ci hanno riempito le case di oggetti che compriamo solo ed unicamente perchè praticamente costano nulla.
Possedere tanti vestiti ed oggetti ci dà un’idea di benessere fasulla mentre ciò di cui necessitiamo davvero (casa, istruzione, servizio sanitario, ad esempio) diventano sempre più costosi ed elitari. I prezzi bassi di uscita di questi prodotti hanno a che fare con produzioni fatte in paesi dove il lavoro è sinonimo di schiavismo e non c’è controllo sull’ inquinamento, ma come consumatori abbiamo un grosso potere, quello di scelta: “ogni volta che compriamo qualcosa, stiamo votando per il mondo che vogliamo” (Anna Lappé) . Ogni volta che compriamo qualcosa dovremmo informarci, valutare altre opzioni, fare ricerca.
Oltre allo scegliere l’artigianato, i capi tracciati ed il vintage, il Fair Trade è un canale certificato internazionalmente, dal punto di vista delle condizioni lavoro e del rispetto del salario almeno minimo. Il problema è che spesso il Fair Trade, duole ammetterlo, è rimasto ancorato, tranne pochissimi casi, ad un modello estetico sorpassato e poco in sintonia con una generazione contemporanea (età 25/35) di possibili acquirenti, che magari entrano già in certi negozi per comprare prodotti food ma raramente si fermano ad acquistare oggettistica ed abbigliamento.
Credo fortemente che il contenuto etico, pur enormemente apprezzabile, da solo non basti e che nessuno, specie con l’offerta sconfinata esistente oggi online, acquisti qualcosa che non rispetti un gusto contemporaneo. Le organizzazioni Fair Trade hanno di solito importanti catene di negozi che permettono produzioni ragguardevoli in paesi lontani, favorendone lo sviluppo. Una vetrina ramificata e strutturata che permetterebbe una visibilità importante per prodotti più contemporanei ed una ricaduta di guadagno maggiore per i paesi supportati, con aumento di visibilità del marchio e dei profitti.
Per il Fair Trade il design è la sfida dei prossimi anni: hanno già produzioni, maestranze, rete di vendita, fascia di prezzo interessante, quello che manca (e che una nuova e più estesa fetta di mercato apprezzerebbe) è il prodotto.
Il primo sasso nello stagno lo ha tirato Helvetas:una organizzazione Fair Trade con base a Zurigo che si occupa di aiutare le persone in 30 paesi, ed i cui prodotti venduti online e nei negozi offline sono certificati come frutto di cicli produttivi etici e sostenibili.
Helvetas ha recentemente cominciato a lavorare con alcuni designer ed artisti svizzeri, creando un gruppo di lavoro per una buona causa: la creazione di una collezione di prodotti esclusivi realizzati secondo i principi Fair Trade, nelle nazioni partner.
Sonnhild Kestler ha creato un design tessile per il cotone organico prodotto in Uganda e nel Kyrgyzstan che sarà utilizzato per creare biancheria da letto ed altri tessili per la casa. Ma Schallenberg ha sviluppato una collezione di gioielli di 11 pezzi in argento che sarà realizzata da un collettivo di artigiani nepalesi e la ceramista Giulia Maria Beretta ha sviluppato una collezione di meravigliose ciotole in ceramica realizzate in Vietnam che allo stesso tempo sono funzionali e divertenti.
Con la certezza di condizioni di lavoro eque ed un significato creativo che va al di là dell’ ennesimo nuovo oggetto di cui circondarsi, Giulia, il cui lavoro in passato ha raggiunto eco internazionale, ha sancito così il suo ritorno in scena.
Ho la fortuna di conoscere Giulia da alcuni anni e ho seguito questo progetto fin dai primi passi, così le ho chiesto di rispondere ad alcune domande perché penso che questo progetto a mio parere estremamente centrato, potrebbe essere motivo di riflessione e confronto.
Giulia, come sei stata contattata da Helvetas e come è nato questo progetto?
Eliane Ceschi, direttrice del marketing da Helvetas, conosce il mio lavoro da anni. Cercavano un designer che si intendesse di ceramica, e quando Sonnhild Kessler -designer-maker tessile e Ma Schellenderg -designer-maker di gioielli hanno fatto il mio nome, la cosa era fatta!
Conoscevi già l’organizzazione Helvetas?
Helvetas in Svizzera è la non profit più conosciuta. Non esiste nessuno che non ne abbia mai sentito parlare.
Com’è posizionata attualmente Helvetas a livello di immagine? Secondo te qual’è il margine di miglioramento delle produzioni fairtrade che normalmente vengono gestite da grossi gruppi e vendute in catene di negozi come quelli di Helvetas in Svizzera?
Eliane -la fashion designer Zurighese che negli anni 90 era conosciutissima per il suo label di denim innovativo Liane, si impegna da sempre nella produzione equa. Prima di diventare la direttrice del marketing dal gigante non profit, gestiva una distribuzione di abbigliamento sostenibile. Da Helvetas si prodiga a rendere desiderabili oggetti e abbigliamento che altrimenti verrebbero comprati per sole ragioni etiche. Come me, crede che solo proponendo prodotti davvero competitivi e attraenti, si possa sperare in una diffusione duratura dello stile di vita ‘sustainable’. Trovo che l’intervento di Eliane sia palpabile nei prodotti proposti dal web shop e nella boutique zurighese Fairshop, disegnata dallo studio di architettura MACH architects. Sarebbe auspicabile che tutto il ‘fairtrade’ possa competere con il ‘business as usual’, mentre purtroppo spesso comprare etico rappresenta ancora un compromesso per gusto e qualità. Ma le cose stanno cambiando rapidamente grazie ad altre iniziative come quelle di Eliane.
Parlaci del tuo lavoro come ceramista, com’è iniziato e sviluppato e come mai hai deciso di fermarti per un periodo.
Sono ceramista da quando avevo 17 anni. Una vita! Il mio sogno erano la grafica, il gioiello e la moda, ma la vita -o meglio la mia famiglia, mi ha spinta a seguire le orme dei nonni paterni, che negli anni 30 avevano fondato la Ceramica San Rocco al Monte Verità di Ascona. Dopo un lungo apprendistato, ho seguito lo ‘studio pottery course’ al Harrow college of art and design a Londra. Dopo anni di pratica, a 48 anni ho deciso di perfezionarmi con un Master al Royal College of Arts, sempre a Londra. Preciso di non essermi diplomata in entrambi, rendendomi la ‘dropout’ delle scuole di ceramica più prestigiose …. la ragione per la quale ho abbandonato Harrow nell’87, era che preferivo frequentare concerti e vivere in case occupate che seguire diligentemente i corsi. E con la stessa compulsiva vitalità ho lanciato nell’89 le mie ceramiche, con un discreto successo internazionale. Al Royal College le cose sono andate diversamente. Mi sono semplicemente resa conto che malgrado il corso rappresentasse un arricchimento enorme, era giunto il momento di cambiare direzione, e di farlo subito! Ritornare sui banchi ha risvegliato le mie passioni sopite di sempre: moda, visual arts e il gioiello visto come adornamento e estensione del corpo. Incorporare queste discipline a tecniche di produzione della porcellana, è la sfida che sto per affrontare nel mio nuovissimo atelier di Locarno.
Qual’è il motivo che ti ha spinto ad accettare?
Helvetas mi ha contattata nel momento ideale. Stavo organizzando la mia nuova vita locarnese e inventandomi un nuovo modo di lavorare. Non essendo ancora allestito il mio atelier, mi prudevano le mani per vedere realizzate mie idee. Farle realizzare dal laboratorio famigliare in Vietnam che si è occupato di avverare la mia visione, è stato fantastico!
Che rapporto si è creato con gli altri designers del gruppo di lavoro?
Come menzionato, conoscevo già le due designer precedenti e anche Eliane. Poi ho scoperto che anche la persona responsabile della comunicazione era una mia amica ai tempi dei concerti hardcore. Questo ha fatto si che il lavoro si svolgesse “in famiglia”. L’ambiente da Helvetas è molto rilassato, e con tutte le persone del team -anche quelle che non conoscessi già- si è creato un ottimo rapporto. Se lavorare fosse sempre cosi, il mondo sarebbe un posto migliore per tutti.
Sei stata soddisfatta dalla produzione vietnamita? Chi ha gestito il processo e la comunicazione fra designer e produttore? Quali sono le accortezze e problematiche con cui hai dovuto fare i conti?
Sono molto contenta, anche se il livello di precisone e la qualità svizzera si stacca nettamente da quello vietnamita. Per questa ragione è stata essenziale la collaborazione costante con la responsabile della produzione in svizzera, che a sua volta comunicava strettamente con la rappresentante Helvetas in Vietnam. Non ho mai avuto contatti diretti con i produttori fair trade, anche se mi occupavo personalmente di redigere le checklist per la qualità. Prima di raggiungere un prodotto fedele alla mia idea, ci sono voluti numerosi prototipi, e un anno di lavoro. Il problema principale direi che fossero gli standard di perfezione molto diversi. Certamente l’atteggiamento al lavoro in Vietnam è più pragmatico, mentre io sono abituata che se la produzione è in ritardo si lavori anche di notte. Ci sarebbe da imparare dal modo di vita vietnamita, anche se per essere competitivi nel nostro mondo dovrebbero adattarsi a ritmi più frenetici. Devo ammettere che vorrei si applicasse un po di ‘fairtrade’ anche per designer e artisti del primo mondo, spesso schiavi del proprio lavoro per pochi soldi. (haahaa! ndr)
Quando e dove saranno disponibili gli oggetti realizzati dai designers?
Sono già disponibili sul web shop Helvetas ma solo per il mercato svizzero.
Intendo proporle al mercato internazionale anche sul mio sito ma sono ancora “under construction” fino a maggio o giugno.
Pensi che Helvetas continuerà a seguire questa strada coinvolgendo anche altri creativi?
Per ora sono previste altre collaborazioni con designer Svizzeri. Spero che continueranno, forse anche includendo designer internazionali. Un altro progetto interessante proposto da Helvetas è quello di slow fashion con il nome “Fashion Container”. Capi d’abbigliamento che si acquistano online -sempre su fairshop- e che si vedono crescere sul sito, a partire dalla piantagione del cotone fino al prodotto finito. Sto aspettando con ansia la mia felpa ‘LOVE’ disegnata da Kathrine Hamnett per Helvetas, che dovrebbe essere ‘matura’ tra circa un mese.
Credi che quella intrapresa da Helvetas sia un modello replicabile anche da altre organizzazioni simili?
Assolutamente! Sarebbe bello che un giorno acquistare fair trade diventi la norma. Spero solo che non diventi un trend fugace, con tutto lo star system che salti sul carro della sostenibilità -come era stato il caso con le campagne anti pellicce negli anni 80- per mangiare da un piatto che una volta svuotato, verrebbe gettato via per il prossimo trend, forse diametralmente opposto. La sostenibilità non dovrebbe essere una moda, e dovrebbe essere una scelta facile per tutti. Non so se continuerò a produrre in questo modo, ma è stata un esperienza molto interessante. Certamente se intendessi produrre in serie, opterei per laboratori come quello in Vietnam, manifatture artigianali a conduzione famigliare in europa oppure come ho fatto una ventina di anni fa, atelier per la reintegrazione di persone disabili o in riabilitazione. So per certo di non voler creare pezzi in serie fabbricati in condizioni poco etiche. Per ora ricomincio a schiavizzare me stessa con giornate di 12 ore senza un salario :-)
▶︎ LINK:
Sito Helvetas
Web Shop Design Helvetas
Sito Giulia Maria Beretta