Ormai lo sanno anche i muri: filati e maglieria a parte, le mie tecniche artigianali preferite sono l’intreccio dei cestini e la ceramica. Ho sempre pensato che sia un materiale vivo e sensuale, autentico, moderno ed antico, bellissimo ma anche difficile.
Ho sempre avuto una grande stima per chi fa ceramica: le percentuali di scarto sono elevatissime, non sai mai quello che verrà fuori dal forno, potresti aver passato una intera giornata a modellare un vaso che poi si rompe durante la cottura rendendo vano il lavoro. Un processo che implica pazienza, saggezza quasi mistica ed una sorta di devozione, più che semplice passione. Dei tempi lunghissimi ed una percentuale di errore imprevedibile che mal si accosta ai tempi di produzione velocissimi di oggi, dove l’oggetto finale è spesso l’esemplare riuscito di una serie di errori e frustazione. La ceramica sta vivendo una nuova primavera e ogni volta che scopro nuovi designers dallo stile unico e realmente diverso (penso ai pattern astratti di Andrew Ludick, lo stile pop di Camila Prada ma anche alle miniature di Small Wild , il sarcasmo di Laurie Melia o le italianissime Cugine Mancine e Bifranci, ad esempio) non finisco di stupirmi delle possibilità infinite legate a questo marteriale antico. Oggi vi racconto di Biancodichina, una ceramista italiana le cui creazioni sembrano piante acquatiche ed anemoni di mare, fra le più interessanti produzioni che ho conosciuto nell’ultimo periodo, un’ emozione fortissima ad ogni pezzo, una ragazza con un immaginario e devozione immensi di cui sono sicura sentiremo parlare sempre di più.
_Di dove sei, che percorso di studio/lavorativo hai alle spalle?
Sono Alice Reina e sono nata a Pinerolo. Di tutte le mie radici aeree, una la affondo sicuramente a Torino, città in cui vivo e lavoro da undici anni. Qui ho studiato Architettura, con l’intento di mettere il mio ingegno a servizio delle persone e con quel sogno un po’ visionario che tutti gli studenti di architettura hanno, ovvero guidare la trasformazione delle mie idee dalla carta alla realtà. Posso dire che l’architettura è stata il terreno solido e fertile su cui costruire questo inaspettato lavoro artigiano e che, alla fine, quel sogno visionario si sta realizzando proprio nel mio laboratorio.
_Com’è nata l’idea Biancodichina?
– Sentivo il bisogno di “fare”, nel vero senso della parola. Ogni viaggio, ogni esperienza, ogni piccola e perfetta manifestazione della natura, mi prudeva nelle mani. Ho da subito pensato all’argilla, memore di un’estate di più di dieci anni fa passata nel laboratorio di mia zia Lidia ad sperimentare la tecnica Raku. A Torino non c’è quella tradizione ceramica che caratterizza altre regioni e, all’inizio, ogni passo mi è sembrato difficile. Ma è bastato il primo corso di tornio per farmi letteralmente innamorare e una mattina di marzo (era il 2015), ho deciso che questa passione la potevo mettere al servizio degli altri e che meritava un nome. Il bianco di china è un colore che si usa nella pittura, ne bastano piccoli tocchi per illuminare la scena. Il suo nome mi ha sempre affascinato e così, d’istinto, l’ho scelto per le mie ceramiche, allora embrionali e incerte! Il resto è stata una pennellata ad acquerello, circolare, a ricordare il movimento rotatorio del tornio, con un verde veronese cristallino.
-Dove lavori e qual’è il tuo processo produttivo?
Lavoro in un laboratorio nel cuore di Torino, in un bel cortile luminoso (recentemente inaugurato, ndr). Alterno giornate di tornio a giornate in cui applico ai pezzi torniti varie texture tridimensionali. Si tratta di un lavoro molto lungo, molto attento, di grande pazienza. Ogni volta, sulla superficie levigata dell’argilla cruda seguo un disegno tridimensionale che mi è chiaro solo quando l’ho finito. A volte ci vogliono ore per finire un pezzo. A volte, giorni.
-Come vendi le tue creazioni e qual’è la modalità che preferisci?
– Attualmente vendo le mie creazioni tramite i contatti dal mio sito web e dalla pagina Facebook, oltre che nel mio laboratorio. Inoltre, partecipo spesso ad un mercato di artigianato della mia città, il San Salvario Emporium, che è per me un’importante vetrina e una delle poche occasioni in cui porto le mie ceramiche fuori dal laboratorio. Quello che preferisco di più, comunque, è quando mi commissionano un oggetto su misura, in genere un regalo importante per qualcuno di speciale. Lì si scatena anche il mio alter ego architetto e, insieme al cliente, adoro progettare oggetti assolutamente unici e personalizzati. Perché, diciamolo, la vera forza di un prodotto fatto a mano è proprio questa!
-Hai rapporti con l’estero?
– I rapporti con l’estero sono ancora pochi e, per la maggior parte, si tratta di me che guardo con occhi increduli al lavoro di ceramisti giapponesi, coreani, nord europei… A febbraio ho avuto modo di seguire un corso da un grandissimo ceramista olandese che mi ha aperto un mondo sulla porcellana. E’ stato fantastico.
-Quali sono le tue ispirazioni?
– Quello che più mi interessa dell’argilla è la sua forza materica. Ecco quindi che raramente i miei pezzi sono semplicemente dipinti: di solito graffio, scavo, pizzico, applico; sarà la luce a disegnare le ombre sulla superficie irregolare. In tutto questo processo, l’ispirazione sono le forme organiche, gli organismi marini, i licheni che crescono sulle rocce. Le mie creature prendono vita e le immagino nelle case delle persone, a comporre dei personalissimi paesaggi domestici!
-Hai partecipato a mostre/esibizioni particolari?
– Dopo l’estate ho alcune frizzanti novità in cantiere. Una mostra a tema “inverno” e, forse forse, la partecipazione ad una fiera importante, entrambi a Torino. Si tratta di progetti work in progress, seguitemi e vi terrò aggiornati!
-Che progetti hai per il futuro?
– I miei progetti per il futuro includono sicuramente la collaborazione con altri artigiani, in particolare con professionisti del ferro e del legno, per una prima collezione di oggetti che strizzi l’occhio al mondo del design.
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Tutte le foto del post sono di Gloria Piccolo