Quando gli oggetti raccontano storie

Non tutti i capi che compriamo ed indossiamo possono farlo. Alcuni sono belli e divertenti ma muti: servono per coprire un nostro bisogno o capriccio momentaneo e ci si ferma al loro aspetto, prezzo e funzionalità: nulla ci incuriosisce del loro percorso, valore e passato.
Altri invece, specie se frutto di artigianato o commercio etico, parlano, diventano media e ci raccontano storie da ogni cucitura, materiale o rifinitura.
Una borsa ad esempio può essere bella ed utile ma anche parlare di speranza e di riscatto e di chi, a mano, con pazienza e strumenti a volte antichi, l’ha costruita ponendo le basi di lavoro, entusiasmo e benessere per un intero indotto.
E un oggetto così vivo e “parlante”, nato da persone che amano il proprio lavoro e non ne vengono sfruttate, può creare con chi lo sceglie un legame affettivo speciale, risvegliando ricordi ed emozioni.
La storia che vi racconto oggi parte da una borsa creata a mano dall’altra parte del mondo e di due donne meravigliose ed ispiranti: una che questa borsa l’ha creata creando benessere e lavoro dignitoso per un intero quartiere ed un’altra donna speciale che più di 100 anni fa una borsa l’ha riempita di tutto quello che aveva per ripartire da zero.

Donna Rosa Ariza è una signora colombiana bella e con un cuore da leone. Rosa come tante lavorava come dipendente di un laboratorio di pelletteria di Bogotà che purtroppo poi chiuse a causa della sfrenata concorrenza dei cinesi.Il laboratorio dove lavorava era nel barrio dove Rosa vive: Ciudad Bolivar, uno dei più grandi e popolosi di Bogotà, oltre un milione di abitanti. Un unico quartiere grande come una metropoli, in cui è facile sentirsi soli, persi e confusi nella massa.
Ma Donna Rosa non si arrende e piena di spirito imprenditoriale e sorrisi mette su il suo laboratorio, Manifactura Ariza.
Dopo qualche tempo inizia a collaborare con Sapia, uno dei principali partner colombiani del circuito di commercio equo Altraqualità. Sapia oltre ad avere suoi laboratori fa attività di rete e connessione tra gli artigiani, immettendo i migliori nel circuito attraverso un progetto congiunto che si chiama El otro Plan Colombia.

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Rosa comincia a collaborare ed il suo lavoro è talmente ben fatto e gestito che due anni fa si prende una bella soddisfazione: da semplice fornitore, diventa creatrice di una linea disegnata esclusivamente per AltraQualità, Made in Barrio. E la cosa più bella è che grazie all’aumento del lavoro Rosa riesce ad assumere sempre più persone e ad  ingrandire il laboratorio, generando benessere per le famiglie di tante persone e diventando conosciuta in tutto il quartiere, come esempio di una donna che ce l’ha fatta e senza compromessi.

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Le borse di Rosa, le Made In Barrio, hanno un nome ruggente che parla dell’autenticità della vita di strada e mescolano linee moderne ed essenziali con i colori vivaci della tradizione latinoamericana: cuoio, rosso, viola, verde. Il prezzo è unicamente il risultato di materiali e lavoro vero, nessun sovrapprezzo legato a logiche di brand, ricarichi eccessivi pubblicitari o di distibuzione che rimpiccioliscono il compenso ai lavoratori.

Quando ho guardato questo video mi è sembrato di averla fatto io, la mia borsa Made in Barrio, gomito a gomito con Massimo, mangiando una torta di Donna Rosa e sculettando a tempo di musica (ovvio). Ho riguardato con occhi nuovi l’oggetto che ora mi accompagna ogni giorno e ho riconosciuto le mani delle persone dietro taglio e cuciture. Passando le dita su ogni dettaglio improvvisamente tutto mi è sembrato familiare: la mia borsa non è  solo bella, capiente e di buona qualità, ma un legame affettivo e di stima fra me e quella donna meravigliosa dall’altra parte del mondo, della quale sono onorata di indossare un manufatto.

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Ma un oggetto, come dicevo, può risvegliare ricordi e legami affettivi: la seconda donna di questo post è una persona a cui spesso penso e che il cui ricordo mi dà forza ogni giorno. La mia bisnonna Carmela, la nonna di mia mamma.
Carmela nasce nel 1899 a Messina, in Sicilia. Penultima di 9 fratelli e sorelle è ancora piccolissima quando la notte del 28 dicembre alle 5 di mattina tutto il suo mondo sparisce in un boato devastante.
Il tragico terremoto del 1908  rade al suolo Messina e Reggio Calabria, in 37 secondi uccide metà della popolazione della città siciliana e un terzo di quella calabrese.I sopravvissuti si trovano al buio completo e terrorizzati cercano rifugio in mare ma al terremoto segue un terribile maremoto che fa ancora vittime e distrugge il 90% degli edifici di Messina. La mia bisnonna è solo una bambina di 9 anni ed è viva, ma la sua famiglia non ha più nulla. Il papà manda in avanscoperta i due figli più grandi e nel 1910 s’imbarca da Palermo sulla San Giorgio con le sue figlie più piccole, destinazione New York.La mia bisnonna, che aveva una carattere pieno d’orgoglio già da piccolissima,  quel giorno si vestì di tutto punto, come se avesse dovuto partecipare ad una festa.
Fra centinaia di poveracci che non avevano più nulla, spiccava quasi fuori contesto; me la immagino, piccola, spaesata e mi si stringe il cuore.

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Qualche anno fa ho ritrovato tramite siti specializzati in ricerce genealogiche il documento di viaggio di quella epica traversata, con il suo nome e la sua età, 11 anni: è inutile dire che mi sono commossa pensando a mio figlio, ai migranti di oggi che così tanto assomigliano a quelli di allora e immaginando quel viaggio infinito in condizioni terribili culminato dalla visione finale della Statua della Libertà: come doveva essere apparsa immensa e meravigliosa agli occhi sgranati nella  piccolissima Carmela, nel suo spiegazzato vestito della festa.
La mia bisnonna mi raccontò di quanto all’arrivo tutti i migranti, nel passaggio forzato ad Ellis Island fossero stati trattati come animali da bestiame: ammassati in code interminabili di persone di tutte le età, dopo ore di attesa venivano visitati, gli si guardava in bocca e negli occhi come a mucche e cavalli e veniva apposto un segno a gesso sul loro cappotto a seconda del loro stato (malattie, gravidanza etc) per essere poi destinati a percorsi differenti, molti dopo tutto quel viaggio venivano anche rimandati indietro.

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anche la spilla uccellino a sinistra è frutto del commercio equo di Trame Di Storie

La mia bisnonna era forte ed ebbe una vita avventurosa che non posso scrivere tutta qui oggi: si stabilì con la famiglia a New Haven nel New Jersey, studiò (da anziana ancora sapeva recitare le poesie che aveva imparato allora) e cominciò a lavorare nell’azienda di suo fratello maggiore e lì incontrò il mio bisnonno (altro personaggio notevole che sarebbe da raccontare a parte). Tornò, forse un po’ di malavoglia, in Italia, dove si sposò ed ebbe tre figlie, tutte con nomi italiani e nomignoli americani: Beatrice “Bebe” (mia nonna), da cui prendo il mio secondo nome, Anna “Annie”, Maria Luisa “Mary”. Passò indenne prima e seconda guerra mondiali, vicissitudini matrimoniali e una vita da film. A me piace ricordarla su quella nave carica di gente, circondata dai bauli di emigranti, che vedevano per la prima volta Miss Liberty. In una borsa, tutti i loro averi e la voglia di dare un futuro ai propri figli.

P.S. Le borse Made In Barrio le trovate nel negozio Trame di Storie  (online ma anche offline nel circuito Botteghe del Mondo) oltre ad abbigliamento e bigiotteria: realtà vere di lavorazione, idee e persone che lavoranopagate dignitosamente per il loro lavoro e che quindi riescono a sostenere la famiglia, pagare l’educazione per i figli e sentirsi orgogliose di quello che fanno.Tu sai chi ha fatto la tua borsa?

Le foto di questo post sono di Maria Francesca Nitti.

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