Il prodotto artigianale e la frazione di secondo.

Una frazione di secondo.
Ecco la finestra temporale che ha il nostro prodotto artigianale per essere notato: il tempo di un dito che scorre dall’alto verso il basso, su Instagram o il feed di Facebook. Il potenziale cliente si sofferma, approfondisce qualità, immagine, reperibilità e deciderà di seguirci in futuro, ma solo successivamente, dopo e se lo abbiamo catturato in quella frazione di secondo.
L’immagine quindi è fondamentale, si è detto giustamente, per poi risolvere il problema in maniera del tutto parziale.

Negli ultimissimi 2 anni l’importante ampliamento della scena del nuovo artigianato italiana ha portato ad una strutturazione capillare importante e a molti cambiamenti. Dal punto di vista commerciale c’è stata la nascita di nuovi marketplaces, la chiusura di quelli nati su presupposti non più sostenibili, la differenziazione di altri. Progetti di successo con respiro internazionale che utilizzano Kickstarter non solo come avvio imprenditoriale ma anche come vera e propria campagna vendita. Fab Lab che hanno cominciato ad interfacciarsi con Università ed imprese. Artigiani nati su Etsy che hanno fatto il salto aprendosi un proprio negozio online, altri che si incanalano in percorsi più tradizionali cominciando a frequentare fiere di settore e showroom. Altri ancora si sono focalizzati su qualità tecnica e servizio dialogando con negozi e circuiti distributivi convenzionali, allo stesso tempo si è osservata una selezione naturale dei mille mercatini che si erano moltiplicati sull’onda dell’entusiasmo, privilegiando quelli più professionalmente organizzati e che hanno effettivamente portato vendite al di là di un’immagine autoreferenziale. Autoproduttori nati su Etsy diventati consulenti, consulenti ed architetti diventati makers e crafters.
Si è usciti da case e coworking, si sono buttati tesserini da hobbista e aperte partite iva da artigiani (anche se le associazioni di categoria, chiuse un se stesse, sembrano non essersi ancora realmente accorte di questo cambio generazionale).
Dal punto di vista della formazione, sia dal punto di vista tecnico che di quello comunicativo, l’offerta si è moltiplicata a tutti i livelli, anche di accessibilità economica: workshop professionali,corsi online, scuole specifiche, figure di consulenti autorevoli nati proprio dal circuito artigiano e quindi credibili al loro target. I corsi hanno spaziato dal racconto descrittivo alla foto emozionale, passando per WordPress e Seo, costruzione grafica, gestione dei social network e customer care.

© Marco Goran Romano

Il risultato? Prodotti insipidi con loghi e foto meravigliosi. Un sovraffollamento di prodotti tutti uguali ed inutili, in alcuni casi identici a quelli proposti dalle grandi catene (e con questo intendo Zara ma anche Tiger). Oppure prodotti autoreferenziali, raffinatissimi ma muti, che decollano con le fanfare ma non atterrano da nessuna parte tranne che nell’autocompiacimento. Prodotti che via web forzatamente si comunicano solo bidimensionalmente, appiattendo, ad un primo sguardo, tutte le differenze qualitative. La domanda è: ci sarà mai un secondo sguardo che possa approfondire la bontà del nostro prodotto se ad un primo non ha colpito i nostri potenziali clienti? Se il nostro prodotto appare simile a troppi altri, ha senso sbandierarne la pretesa unicità?
E’a questo che ci ha portato la strutturazione della scena del nuovo artigianato?

Ritornando al problema posto al principio, riguardo la velocità dedicata alla scelta del prodotto e al problema di riuscire a coinvolgere il potenziale cliente in un lasso di tempo così infinitesimale, si è risposto con una cura dell’immagine maniacale: foto, brand identity, storytelling, styling, product placement, cura professionale dei social network (Instagram su tutti). Sono tutti aspetti importanti ed imprescindibili nell’era contemporanea ma solo parziali. Il prodotto, la sua capacità di parlare al target che vogliamo raggiungere, l’idea forte alla sua base, il dettaglio non previsto sono fondamentali: se il prodotto non c’è, non ha senso parlare di comunicazione.
Una volta un mio ex insegnante mi disse che gli italiani non sono genuinamente creativi ma ottimi comunicatori ed “addomesticatori” delle idee altrui.*
E’ ancora vero? Quanto del nostro tempo dedichiamo alla progettazione rispetto alla comunicazione?
Un tema, quello del prodotto, su cui vorrei continuare a riflettere e confrontarmi nel mio prossimo post.

* un concetto simile è riportato nell’illuminante conversazione nata tra Dale Dougherty, editore della rivista “Make” e Giulio Ceppi, importante designer italiano, citata nel libro “Fare è innovare” di Stefano Micelli.

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